di Daniela Levaro Belgrano
L’assassinio di Giulia Cecchettin è stato terribile e dirompente per l’opinione pubblica, con ripercussioni, si spera durature, che potrebbero determinare una inversione di tendenza sul fenomeno dei “femminicidi”.
Molto merito ne hanno la sorella Elena ed il padre, persone che hanno avuto la forza ed il coraggio di scuotere le coscienze.
Su tutti i mezzi di comunicazione ne sono nati dibattiti di ogni tipo ed altrettante proposte di soluzioni.
Ho sentito il bisogno personale di cercare equilibrio e chiarezze tra il grande dispendio di parole.
Ho raccolto alcuni pensieri ed opinioni che possano far riflettere, nel rispetto della complessità del tema, a prescindere dalla focalizzazione su unici aspetti banalizzati dalle semplificazioni con le quali, a volte, vengono sciorinate.
Il pedagogista Daniele Novara ed esperto del metodo maieutico “litigare bene” lamenta la mancanza di pedagogisti nella scuola ed una assenza di una educazione alla vita ed alla formazione del cittadino. La formazione dei docenti è carente anche per quel che riguarda il controllo e la gestione delle emozioni, mentre i social sono tarati sul controllo.
Lo psicoanalista Massimo Ammaniti ricorda il trauma del distacco dalla madre (verso i due anni) e la responsabilità e la necessaria cooperazione differenziata dei genitori per aiutare il figlio a superarlo.
Lo psichiatra e sociologo Paolo Crepet afferma che l’indifferenza è la madre di tutte le violenze e la morte dell’empatia.
Il teologo e saggista Vito Mancuso spiega il patriarcato: “Dio è padre di ogni religione sin dai tempi più antichi, solo l’Islam vieta di parlare del padre, ma solo perché troppo confidenziale, ma ciò non ha impedito l’instaurarsi di un pesantissimo patriarcato”. Insomma, dice Mancuso: “Dio è padre, io sono padre, quindi sono un dio: questo il grossolano sillogismo nella mente maschile di ogni tempo”. Il patriarcato, secondo Mancuso, “rimanda, ben più che al maschilismo, al prevalere universale della forza che sottomette. Il suffisso “arcato” (dal greco archè) significa potere, comando, sovranità e non è ne maschile né femminile, a prescindere.” (in questa chiave di lettura il patriarcato sarebbe introiettato anche dalle donne)
Un essere umano, quando è vittima di violenza viene ridotto ad una cosa, prigioniero del dio della forza che non vede la sua anima.
Mancuso auspica che “l’unica liberazione possa essere la cultura, la quale suscita e fa fiorire quella dimensione che Simone Weil chiamava Anima. Sostituire il dio maschile e dominatore con la Sapienza, la dimensione femminile che esprime relazione e non forza, armonia e non imposizione -il sommo ideale a cui educarci sciogliendo il nodo di spine del patriarcato- “
Anche il filosofo e psicanalista Umberto Galimberti, negando il raptus, esprime un’attribuzione culturale e dice che l’assassino “non è passato dal livello pulsionale al livello emozionale nella sua crescita. Non è mancanza di controllo razionale, non ha una risonanza emotiva dei propri comportamenti. Non sente la differenza tra il bene e il male, la sua è una mancata evoluzione della persona. Quando i ragazzi che fanno stupri dicono ai giudici- che cosa abbiamo fatto- non si stanno giustificando, sono sinceri. Quando la mancata percezione della differenza tra bene e male si esprime anche nell’aggressività, oltre che nella sessualità, allora abbiamo questi risultati.” Galimberti evidenzia un aspetto cruciale dell’educazione sentimentale: la transizione da pulsione a emozione e da emozione a sentimento. Il processo è fondamentalmente un fenomeno culturale che necessita di essere compreso e coltivato nel percorso educativo. Una delle proposte più significative del Professore è quella di “riempire le scuole di letteratura che ha la capacità di esplorare e descrivere la complessità delle emozioni umane. Attraverso i grandi romanzi,le poesie, le opere teatrali, gli studenti possono farne esperienza e coltivare una maturità emotiva che va oltre la conoscenza fisica della sessualità e crea la capacità di collegare queste esperienze con la componente psichica.”
Il filosofo Massimo Cacciari sottolinea la crisi del patriarcato, il venir meno di quel modello di famiglia in un’epoca di trasformazione che crea ancor più disagi nei soggetti deboli.
Ancora, la filosofa Michela Marzano vorrebbe riscrivere la grammatica delle relazioni intersoggettive.
Lo storico dell’arte Tomaso Montanari rammenta la massima mussoliniana ed i semi dell’eredità che può aver lasciato: “la guerra sta all’uomo come la maternità sta alla donna”
Papa Francesco raccomanda una educazione con al centro la dignità della Persona, praticamente un esercizio di apprendimento empatico finalizzato alla comprensione ed al rispetto dell’altro/a.
Lo psicanalista e saggista Massimo Recalcati dice: “ti uccido perché non accetto di essere niente senza di te (alternativa al lutto)”. Fa riferimento ad un lutto dei legami primari mai avvenuto “la violenza avviene al posto di un lutto impossibile e vale anche nei processi collettivi”. In molti casi “la vittima si è trasfigurata in un prolungamento fantasmatico della madre, senza la cui presenza la vita del soggetto è destinata a sprofondare nel nulla, cifra generale del nostro tempo: l’accudimento prolungato dei figli vorrebbe scongiurare il trauma benefico della separazione. La carenza simbolica della legge paterna che dovrebbe favorire il distacco dai legami primari si mescola qui con la tendenza a rendere la dipendenza da quei legami interminabile.”
Si deduce che, interpretare oggi il patriarcato come unico capro espiatorio di ciò che sta accadendo, non è totalmente realistico.
E’ realistico osservare che il patriarcato nei secoli abbia attraversato trasformazioni, mentre sarebbe opportuno considerarlo solo per lo spazio che ancora occupa, impegnandosi a correggerne la confusiva interpretazione nell’attuale ruolo paterno.
Se, per origini antropologiche, il temperamento maschile avrebbe la funzione di favorire il distacco dalla figura materna attenuandone il trauma con l’autorevolezza di porre limiti, leggi e regole, ci sarebbe anche da considerare l’intima differenza tra il maschile ed il femminile per come i nascituri sperimentano il trauma;
la femmina avverte in minor misura il distacco dalla madre in quanto nel tempo ha modo di fare esperienza del suo riflesso di intima uguaglianza.
Per il maschio è più complicato formare la sua identità senza il doloroso distacco e quindi ha maggior bisogno di un modello paterno che lo aiuti a differenziarsi.
Purtroppo, però i padri del nostro tempo vacillano nella consapevolezza del loro ruolo. In questa luce che senso avrebbe combattere il patriarcato come un nemico, senza tener conto di tante componenti? Non sarebbe meglio che il padre si riconoscesse quelle parti maschili non prevaricanti ma autorevoli che gli permetterebbero di ripensare e ridisegnare il suo ruolo su basi di attitudini, compiti, collaborazione amorevole e responsabile in parità di rispetto?
Non si può ignorare che ne venga anche un ripensamento alle origini della posizione e responsabilità materna, della sua autoeducazione alla consapevolezza di una collaborazione con il padre, nel riconoscimento della sua naturale predisposizione a far da tramite e da supporto al trauma del distacco del figlio e che sovente trova la donna stessa disorientata e sola nell’affrontarne la fase delicata.
Inoltre, Massimo Ammaniti afferma addirittura che il patriarcato non c’entra e lo dimostra con una sociologica carrellata storica delle trasformazioni che, nel tempo, hanno impresso al patriarcato notevoli cambiamenti. Dice “le violenze e le sopraffazioni maschili non nascono oggi dal potere patriarcale che le usava per legittimare la sua supremazia, originano piuttosto dalla debolezza e dalla fragilità degli uomini che, sentendosi impotenti ed impauriti per essere sopravanzati dalle donne, reagiscono con rabbia ed odio”. Anche Ammaniti tiene conto del trauma del distacco che, se non superato, va ad aggravare le difficoltà del rapporto tra i sessi. Inoltre dice che “si è verificata, come scriveva P.P. Pasolini, una mutazione antropologica che ha completamente scompaginato il mondo del passato ed è difficile comprendere dove stiamo andando, anche perché la tecnologia ci sta continuamente sopravanzando”
Daniela Lucangeli, prof. di Psicologia dello sviluppo ed eminente ricercatrice, riflette sulla mancanza del particolare sguardo di cui hanno bisogno i figli e che viene rapito dalle connessioni tecnologiche che invece intrattengono i genitori, deprivando i figli di un necessario alimento di crescita. Secondo la Lucangeli, spostare lo sguardo al di fuori del sistema noi, ovvero –tu sei importante per me- ha determinato tante vulnerabilità e dipendenze. Suggerisce che, se l’attenzione quando si sposta sul cellulare crea così tanti danni, quando torna all’umano genera tanti cambiamenti.
E la tecnologia che quasi ci costringe ad essere continuamente connessi, agisce sulle giovani generazioni i suoi aspetti più deleteri.
Essere sempre interconnessi li disabitua alla percezione ed alla gestione del corpo (disconnette proprio il corpo…), sviluppa un esasperato ed esasperante controllo sugli altri, crea dipendenze, fa ruotare il vivere attorno all’immediatezza dei messaggi, escludendone l’elaborazione, spinge a cercare sicurezze nella negazione delle sconfitte, delle frustrazioni, dei rifiuti, delle rinunce, dell’imponderabilità.
L’aspetto del controllo per il genere maschile facilmente si focalizza sul possesso e sul potere, mentre per il genere femminile è frequente la virata verso “io ti salverò”.
Entrambe le situazioni rappresentano ed esprimono dipendenza. Inoltre, le connessioni virtuali escludono una piena esperienza corporea che resta inibita, alterata, non genuina, non abituata ad esercitarsi in una gestione delle emozioni che possano essere congruenti con il corpo. Si crea così il pericolo delle inconsapevoli esplosioni, amplificate dall’incapacità di reggere le frustrazioni.
E’ però il corpo che uccide! Mosso da una mente che ancora non è avvezza a conoscerne le pulsioni ed a prendere confidenza con le risonanze delle emozioni.
Questo spiegherebbe il furioso accanimento di violenze sulle vittime…Infatti non si può chiamarlo raptus o follia, è piuttosto la conseguenza di una mancata educazione, di una mancata conoscenza, di una mancata consapevolezza ad integrare corpo e mente. È paradossale che, mentre si è tanto impegnati ad esercitare lo stretto controllo sull’altro/a, si ignori totalmente l’autocontrollo.
Quindi la tecnologia, purtroppo, fa la sua parte più deleteria, ma, se ci si domanda anche quale altro brodo favorisca gli sbandamenti e le confusioni di alcuni giovani, si ritorna a considerare lo smarrimento del maschio.
Ammettere la crisi del modello patriarcale non basta a superarla per costruire nuovi modelli.
Nella nostra attuale società è un piacere consolatorio osservare tanti giovani padri che si adoperano per l’accudimento amoroso della loro prole ed ammiro il loro impegno. Tuttavia, mi sembra insufficiente ai fini di sostituire il famoso patriarcato con nuovi modelli sostenibili ed efficaci.
Nel patriarcato l’autoritarismo ed il potere imperavano, mentre ora dovrebbero lasciare il posto all’autorevolezza paterna (e materna).
Secondo me, ai volonterosi ed ammirevoli giovani padri dovrebbe essere dato il “permesso” di essere anche autorevoli e di riappropriarsi, riveduta e corretta, della primaria, naturale funzione attitudinale : “le regole del padre”. Infatti, anche a detta dei più stimati pedagogisti e psicanalisti, il ruolo del padre sarebbe quello di predisporsi a proporre quelle regole e limiti che dovrebbero sostenere ed affiancare la madre nell’equilibrato e non traumatico distacco dal figlio. Padri che hanno da esercitare la consapevolezza (e darsene il permesso) che esistano salutari limiti.
Chissà che alcune dipendenze di cui patisce la società giovanile (e non) non abbiano anche origine proprio dalla crisi del vecchio patriarcato che ancora non ha trovato adeguata e degna sostituzione?
Forse accompagnare i giovani a ripensare e ridisegnare un’idea di paternità più consona ed aderente al cambiamento dei rapporti tra i generi, potrebbe contribuire a ri-formare e ri-fornire una identità maschile più consapevole e solida, meno soggetta al controllo, alla prevaricazione ed alla mancanza di rispetto per l’identità femminile.
Anche la donna è chiamata a questa consapevolezza, per poter adeguatamente collaborare, nel rispetto delle diseguaglianze.
Il Monaco biblista e saggista Enzo Bianchi mette in risalto che “il compito che ci sta davanti è una rieducazione degli uomini alla relazione, all’accettazione delle diversità, alla spoliazione della forza, per un riconoscimento della uguale e universale dignità degli umani”.
La rilettura di quanto ho riassunto mi suscita ora il desiderio di riuscire anche ad attribuire un significato agli spunti considerati nel loro insieme.
Se l’uccisione di Giulia Cecchettin, seguita dall’esemplare comportamento sensibilizzante dei suoi familiari, davvero, come sembra, sta segnando un punto di svolta, è responsabilità di tutti che ciò avvenga in modo che il suo sacrificio si trasformi in un evoluto bene comune.
Nasceranno progetti educativi e percorsi ri-educativi di diverse impostazioni, la cui primaria prospettiva, auspico, possa essere quella di comprendere e tener conto delle complessità in campo; per non incorrere nel rischio di arroccarsi in schieramenti solo a sostegno di cause troppo nette e limitanti.
Mi riprometto di perseverare nelle riflessioni, come stimolo personale a non abbassare l’attenzione al tema e come contributo ad una comune sensibilizzazione.
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